MARCO BOLEO E IL MACIGNO DEL DEBITO PUBBLICO

MARCO BOLEO E IL MACIGNO DEL DEBITO PUBBLICO

Pubblicato da Plinio Olivotto il giorno 31-10-2017   15:20:24
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La ‘Legge di Bilancio’ (ex ‘Legge di Stabilità’) costituisce da sempre, anche quando era denominata ‘Legge Finanziaria’, un passaggio molto delicato per il Governo Italiano, quali siano il Presidente del Consiglio, il Ministro dell’Economia e relativa maggioranza a sostegno. Questo sia nelle fasi di recessione che di ripresa economica viste le scarse risorse finanziarie disponibili rispetto a quelle necessarie per far fronte ai precari equilibri economici e sociali del nostro paese. Le diseguaglianze sociali, l’aumento della povertà, il potere d’acquisto delle retribuzioni degli statali e le disparità dei trattamenti pensionistici, per toccare solo alcune delle criticità, sono da sempre appuntate nell’agenda del governo. L’elevato debito pubblico che da solo costituisce il 10% del mercato mondiale dei titoli di stato (con quasi il 25% di esso detenuto dalla Bce) ed un disavanzo annuale che continua ad alimentarlo sono però dei vincoli che lasciano ridotti margini di manovra ai nostri policy maker. Da quando Pier Carlo Padoan ha raccolto l’eredità di Fabrizio Saccomanni al Ministero dell’Economia ha sempre attuato un’astuta strategia per far passare indenne il Documento di economia e finanza (Def) al vaglio della Commissione Europea. Lo stratagemma del Ministro consta di due fasi distinte. Nel Def di primavera vengono messi nero su bianco dei target molto ottimistici di riduzione del deficit di bilancio ma difficilmente praticabili se non col sostegno delle ganasce fiscali, ovvero, degli aumenti automatici dell’imposizione fiscale (note come clausole di salvaguardia) che se introdotte avrebbero gelato i fragili germogli della ripresa economica. Mentre nel Def autunnale vengono disattivate le ganasce fiscali e si adotta la pratica del ‘sentiero stretto’. In altre parole, si lascia aumentare il deficit in rapporto al Pil centrando però una percentuale minore rispetto a quella dell’anno precedente e questo ci fa sembrare pur sempre un pelino virtuosi. A Bruxelles hanno sempre chiuso un occhio vista la credibilità che Pier Carlo Padoan ha accumulato nei suoi anni all’OCSE. Passando ai numeri, nel Def di primavera di quest’anno l’esecutivo Gentiloni si era ripromesso di portare il deficit all’1.2% del Pil. Nel frattempo una crescita economica più rosea (trainata dalla ripresa mondiale) rispetto alle previsioni ha fatto diminuire il deficit tendenziale all’1%. Il Ministro Padoan, in ossequio al suo metodo, invece di mantenere la barra fiscale su questo valore ha deciso di dilatare l’obiettivo di deficit programmatico all’1,6%, dedicando lo 0.6% di deficit ai contentini da elargire durante la campagna elettorale alle porte. Malgrado queste spese fiscali pro-cicliche all’italiana il deficit strutturale dovrebbe continuare a scendere verso l’1% (con un avanzo primario del 2%), dopo due anni consecutivi di aumento e questo ci metterà al riparo dai rilievi della Commissione Europea.

Il debito pubblico, cui si accennava in precedenza, con la sua inarrestabile crescita negli ultimi dieci anni condizionerà non poco le scelte dell’esecutivo Gentiloni e di quello che verrà dopo le elezioni della primavera 2018 rendendo più stretto il sentiero per rimanere nella prosa del ministro Padoan. Stando almeno al Def d’autunno il governo prevede di ridurlo nei prossimi tre anni dal 131.6% del Pil al 123.9%. Vediamo come intende farlo. L’accumulazione del debito pubblico, com’è noto, si riduce se nella gestione del bilancio dello stato (annuale) si generano degli avanzi di bilancio primari (al netto cioè della spesa per interessi sui titoli del debito pubblico emessi negli anni passati) che consentono di ridurre lo stock di debito in circolazione. Il piano che hanno in mente a via XX settembre è più o meno il seguente. Gli interessi pagati sul debito pubblico in circolazione ammontano ogni anno a poco più del 3.5% del Pil. Sic stantibus rebus se l’avanzo primario aumenta e si stabilizza intorno al 3% buona parte della crescita del Pil contribuirà a ridurre il debito pubblico. In altre parole se il tasso di crescita del Pil nominale (tasso reale + inflazione) sarà maggiore del tasso d’interesse nominale medio (tasso reale + inflazione) pagato sul debito pubblico la strategia contenuta nel Def d’autunno sarà percorribile. Le variabili che ballano nell’esercizio previsivo del Governo e dalle quali dipende il successo dell’operazione sono la magnitudine della crescita del Pil e dell’avanzo primario del bilancio dello Stato. Una crescita nominale cumulata del Pil del 10% nei prossimi tre anni a noi sembra eccessiva anche perché il contributo dell’inflazione sarà inferiore rispetto a quello previsto. Considerando le stime di crescita più realistiche del FMI a questa strategia verrebbe a mancare una crescita nominale del Pil di almeno il 4%. Di conseguenza la riduzione del debito di quasi 7 punti sul Pil nei prossimi tre anni sembra scritta sulla sabbia e questo dovrebbe far riflettere anche alla luce della futura riduzione del Quantitative easing da parte della BCE. Servirebbe pertanto una Legge di Bilancio che metta da parte il ciclo elettorale ed accumuli credibilità e fieno in cascina.

Marco Boleo